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Le 5 Fasi del Dolore

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Messaggio Da admin Ven 10 Ago - 7:22

Lao Tse diceva: “Quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo la chiama farfalla”. Ma in certe fini, come quelle relazionali, facciamo fatica a staccarci dal passato per librarci nel futuro. Dov’è la presunta bellezza dell’inizio quando ci scontriamo con l’immediata concretezza della fine? Il mondo in cui vivevamo fino a ieri ci appare oggi sconosciuto e straniero, e stranieri e sperduti ci sentiamo noi. Ansia, angoscia, vuoto, tormento sono le emozioni che ci accompagnano. Possibile che la rottura di una relazione porti questo? E perché?

La fine di una storia è vissuta diversamente da ciascuno di noi. Che da lì inizi una fase di elaborazione è certo, che per alcuni duri tutta una vita anche. Viviamo un vero e proprio lutto, la perdita di una persona e di una parte di sé. Molti autori ne hanno studiato il percorso, tra questi Elisabeth Kübler Ross, medico psichiatra che si interessò a lungo ai death studies e che delineò un percorso a cinque fasi di elaborazione del lutto per i malati terminali, che la comunità psicoterapeutica ritenne adattabile a qualunque elaborazione di una perdita.

Il cammino comincia con la negazione, il rifiuto del nuovo stato. In una relazione si costruisce un mondo assieme: com’è possibile abbandonarlo dall’oggi al domani, trovarsi negli stessi luoghi ma da soli? Le aspettative, le amicizie, i sentimenti… tutto cancellato come gesso dalla lavagna, come se col sole fosse tramontata ogni cosa costruita assieme. Come di fronte a una città dopo uno tsunami, accettare che ciò che era ieri, oggi non è più, risulta impercepibile. La nostra mente ci difende, ci mantiene in piedi di fronte a queste fumanti macerie emotive facendoci rifiutare la drastica concretezza, che ci assalirebbe alla gola e al petto con un ululato angosciante.

Dura poco, a volte qualche giorno, poi ci rendiamo conto che la vita sta continuando. Allora sopraggiunge la rabbia. Come un flusso di adrenalina, la rabbia sembra un motore che pompa nuova energia, ma è un’energia scura, minacciosa, che nasce dal senso di abbandono. A volte si rivolge contro tutto e tutti, come quando odiamo i sorrisi degli sconosciuti che ci passano accanto. Altre volte la scagliamo contro chi ci ha lasciato, ma allora ci sentiamo in colpa, vittime dell’ambivalenza dei sentimenti provati. Altre volte la indirizziamo verso noi stessi, divenendo in un solo colpo vittima e carnefice, aggredendoci o ritirandoci da tutto. Cerchiamo una soluzione, come quella di rincorrere chi abbiamo perso, manifestandogli tutta la violenza del nostro cuore spezzato e, così, allontanandolo di più. Diveniamo subdoli ingannatori di noi stessi, ci colpevolizziamo di tutto, di non aver capito, di non aver saputo ascoltare, scordandoci che spesso mettiamo nell’altro ciò che volevamo vedere e che se questo è base indispensabile di un sano rapporto di coppia, diventa disfunzionale quando il rapporto finisce. Cosa fare in questa fase? La rabbia, il veleno, l’angosciosa aggressività va fatta defluire, spurgata, ripulita: scrivere ogni giorno di tutta l’ira che sentiamo dentro è uno dei tentativi per prenderne distacco.

Si arriva allora al patteggiamento, la contrattazione, la riparazione. Cosa avrei potuto fare? Cosa posso fare ora, per riparare? “Se solo…” ed “E se…” diventano i nostri tarli. Se da un lato ci riappropriamo di una parte della nostra vita, riuscendo a riprendere in mano certe responsabilità e capacità, dall’altro vorremmo farla tornare a ciò che era, per restaurare il nostro amore, per tornare indietro nel tempo. Ma non possiamo scendere a patti con la realtà, con lo scorrere delle cose. Così rimaniamo nel passato, in ciò che era, in ciò che desidereremmo. Ma il passato non si cambia, mai. Dobbiamo guardare al futuro con gli occhi del presente, perché tutto ciò che facciamo nell’illusione di cambiare il passato ci lega ad esso e non ci lascia proseguire.

Quando arriva, il dolore è come un manto nero e pesante che cala sulle spalle. Ora viviamo la sconfitta e non possiamo far altro che sedere sulle macerie della nostra storia per contemplarne il disastroso splendore. Il dolore non può guarire, può solo decantare. Possiamo decidere: vivere male con la perdita, o vivere meglio che possiamo senza ciò a cui tenevamo. Se ora nulla ha senso, vuol dire che un senso dobbiamo trovarlo noi. Spesso in questa fase evitiamo di pensare a lui/lei o al noi, al passato. Evitiamo i posti che frequentavamo assieme, le cose che facevamo, le persone che vedevamo. Evitiamo tutto, ma più evitiamo più ci manteniamo legati, perché evitare qualcosa è ricordarsi che è sempre lì. Come direbbe Frost: “L’unico modo per venirne fuori è passarci in mezzo”. Questo è il momento per ricordare ciò che c’era di bello. Ricordare può fare male, ma è un dolore che funziona da medicina. Perché una storia non è solo la sua fine: c’è un passato di belle immagini, una galleria di bei ricordi da guardare, da contemplare, da ordinare e a cui tornare per riappropriarsi di ciò che abbiamo saputo costruire.

Torna la vita, la consapevolezza, la comunicazione. Arriviamo finalmente all’accettazione, all’integrazione di questo male che ora non è più oscuro, rischiarato dalla luce alla fine del nostro percorso. Diveniamo l’unica persona indispensabile per noi stessi, ci riappropriamo delle nostre risorse, ci apriamo a nuove esperienze, a nuove sensazioni piacevoli che scacceranno quelle dolorose. Finalmente possiamo alzarci dalle macerie, e riiniziare a costruire.
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Messaggio Da admin Sab 11 Ago - 0:08

In quel caso come ci si sente?

Ciao e benvenuta Estef !

Luce
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